L’EVENTO
Processo all’Arte, Vicentini «alla sbarra»
Il 17 ottobre installazione animata alla Cattolica

«Sentirmi in colpa è una mia vocazione», sorride - ma non troppo - l’artista varesino, Giorgio Vicentini.
E attorno a questa confessione costruisce il senso di Indagine in sette scene, la mostra-installazione che il 17 ottobre prossimo - dalle 17 alle 18.30 - animerà la prestigiosa Aula Sant’Agostino dell’Università Cattolica di Milano.
Non un’esposizione tradizionale ma un vero e (im)proprio processo teatrale, in cui diciotto opere recenti saranno poste sotto accusa, difese, discusse, fino a diventare materia di un dibattimento collettivo.
La colpa che l’artista rivendica - quella di non fermarsi, di reinventare ogni giorno la pittura come rigenerazione continua - si trasforma in un rito pubblico dove il linguaggio visivo viene interrogato, ora messo in dubbio, ora rilanciato come necessità.
Gli attori del dibattimento
Il dispositivo scelto da Vicentini è volutamente paradossale: un’aula universitaria trasformata in Tribunale, con figure di spicco della critica chiamate a interpretare ruoli codificati: Flavio Caroli, Storia dell'arte moderna alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano veste la toga del giudice; lo storico dell’arte Paolo Bolpagni quella del pubblico ministero; Cecilia De Carli, docente a contratto di Storia dell’arte contemporanea alla Cattolica, la critica d’arte Chiara Gatti e Francesco Tedeschi, docente di Storia dell'Arte contemporanea nella facoltà di Lettere e Filosofia della Cattolica si schierano come difensori, mentre Grazia Massone, docente di Istituzioni di Storia dell'Arte all'Università Cattolica di Brescia, orchestra la narrazione.
Un cast di accademici e critici che per una sera abbandona la distanza analitica e si lascia coinvolgere in un’insolita a drammaturgia, diventando parte integrante di un copione che, in fondo, mette in discussione il loro stesso ruolo.
Scene da un processo
Le sette scene scandiscono un crescendo: l’introduzione solenne, l’attacco dell’accusa, la difesa dell’artista, la reazione del pubblico, le arringhe dei difensori, il contraddittorio serrato, la sentenza finale.
Tutto è costruito secondo i tempi del teatro, con l’intenzione di far emergere non solo le qualità dell’opera sott’esame ma il fragile equilibrio tra autorevolezza critica e ricezione collettiva.
In questo gioco di specchi, la pittura di Vicentini diventa pretesto e strumento, corpo da analizzare e voce da ascoltare, oggetto estetico e soggetto che parla.
Il valore di quest’operazione non sta tanto nella cornice spettacolare, quanto nel suo contenuto critico: l’arte contemporanea, sembra dire Vicentini, «vive costantemente sotto processo».
Deve cioè «giustificarsi davanti al mercato, al pubblico, alla storia, deve subire il verdetto dei critici e la distrazione dei social, deve, in ultima analisi, dimostrare di essere necessaria in un mondo che spesso la percepisce come superflua.
Il «Je m’accuse»
Mettersi volontariamente alla sbarra diventa allora un gesto di consapevolezza estrema.
Se infatti l’arte è sempre «sotto accusa», tanto vale trasformare l’accusa in scena e renderla visibile.
Eppure, proprio questo meccanismo solleva domande più radicali.
Non si rischia di ridurre l’opera a pura retorica, a elemento di spettacolo?
Non è il tribunale stesso - coi suoi ruoli, le sue finzioni, le sue gerarchie - a diventare metafora di un sistema che pretende di giudicare ciò che, per sua natura, sfugge a ogni sentenza?
Vicentini accetta la contraddizione e la rilancia: mette la critica dentro il teatro, la priva della sua autorità e al tempo stesso la eleva a drammaturgia. In questo spazio ambivalente l’opera non si limita a esistere ma diventa argomento, pretesto, scintilla di un discorso che non si chiude mai.
L’artista varesino lo sa bene: uscire da questo gioco significa «portare ancora una volta a casa la pelle».
Un’espressione ironica ma anche seria, cioè indirizzata alla Verità, che rivela la fatica e il rischio di chi sceglie di esporre non solo le proprie opere ma se stesso, la propria ricerca, il proprio rapporto con la critica.
Tra creazione e giudizio
Indagine in sette scene è allora un esperimento che interroga più il contesto che l’opera singola: mette a nudo la dinamica tra creazione e giudizio, tra desiderio di autonomia e necessità di legittimazione.
Per un solo giorno, e in un solo spazio, il pubblico vedrà l’arte trasformata in processo. Ma la sentenza, come sempre, resterà provvisoria.
Perché alla fine, questa è materia da Corte d’Assise. Ovvero del collegio giudicante che affida il verdetto all’indirizzo della giuria popolare.
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