PERIODO TRAGICO
Rapimenti nel Varesotto: la pagina nera riscritta in una tesi
La fine dell’Isola Felice fu merito di un «infame». Antonio Zagari tradì il padre e firmò la condanna della cosca. Giulia Milani ricostruisce il tragico periodo
C’è una data che fa da spartiacque nella storia del Varesotto del Secondo dopoguerra ed è il 13 novembre 1997. In corte d’Assise a Varese si chiude il maxiprocesso che per primo ha certificato la presenza della ‘ndrangheta nel Nord Italia, portando all’estinzione del clan Zagari, la cosca che dal 1954 fece della provincia di Varese la base strategica per le sue attività criminali. Gli inquirenti la chiamarono “Isola felice”, una scelta che ci ricorda ancora oggi quanto fosse comune pensare che la mafia non potesse proliferare al di fuori del Sud. Tra i principali capi d’accusa del processo “Isola Felice” ci furono diciassette tra omicidi e tentati omicidi, tre sequestri di persona – Emanuele Riboli, Cristina Mazzotti e Antonella Dellea (furono in tutto nove tra il 1974 e il 1990) –, dodici estorsioni, diciotto tra rapine e tentate rapine, reati in materia di armi e associazione mafiosa. Alla sbarra finirono 126 imputati: il primo della lista era Antonio Zagari, figlio del boss Giacomo, che decise di mettersi al servizio della giustizia e diede un contributo fondamentale a chiudere la stagione dei sequestri di persona a scopo di estorsione e a farne incriminare i responsabili, se stesso compreso. A 28 anni dalla sentenza di primo grado – con la quale furono comminati sette ergastoli e oltre cinquecento anni di carcere – uscirà domani nelle sale la trasposizione cinematografica dell’autobiografia di Zagari, “Ammazzare stanca”, scritta in una cella d’isolamento dei Miogni e pubblicata nel 1992. Ne abbiamo parlato con Giulia Milani, neolaureata in “Storia e storie del mondo contemporaneo” all’Università dell’Insubria, che, proprio con gli occhi dello storico, a conclusione del suo percorso accademico, ha rievocato una delle pagine più nere della provincia con la tesi “Varesotto sotto sequestro. ‘Ndrangheta, rapimenti e maxiprocesso tra cronaca e rivelazioni del primo infame(1954 - 1997)”.
Perché Giacomo Zagari sceglie Varese quando si trasferisce dalla Calabria?
«Alla base c’è una motivazione prettamente familiare: sua cognata viveva a Galliate Lombardo ed è lì che Giacomo Zagari si trasferisce nel 1954. A questo si sommano lo sviluppo industriale, la ricchezza economica del territorio e la centralità del Varesotto nei collegamenti con Milano, Como, i laghi e la Svizzera. Per i primi vent’anni si concentra sulle estorsioni; i sequestri di persona arrivano vent’anni dopo, quando la famiglia vive già da qualche tempo a Buguggiate, paese dove avviene il rapimento di Emanuele Riboli».
La figura del figlio Antonio è controversa: dà l’impulso decisivo al processo, ma non rinnega in toto la sua attività criminale...
«Antonio Zagari non era un pentito, era un collaboratore di giustizia. Il padre lo ha cresciuto come ‘ndranghetista, considerandolo più come uno dei suoi piuttosto che come figlio. Nella sua autobiografia spiega in modo esplicito di non aver avuto alcuna remora a uccidere altri mafiosi, sostenendo che la stessa affiliazione presupponga la firma di una sorta di contratto dove anche la morte è contemplata. Diverso è quando le vittime sono “civili”. L’omicidio di Emanuele Riboli, suo conoscente e di poco più giovane, lo scuote, ma impiega comunque sedici anni per rendersi conto della portata delle azioni della ‘ndrangheta, soprattutto quando subentra la possibilità che altri giovani possano essere uccisi».
Nel 1990 decide di contribuire al fallimento del sequestro di Antonella Dellea, ma sul blitz di Germignaga incombe il dubbio che la sua collaborazione fosse già nota alla cosca...
«Nello scontro a fuoco con i carabinieri perdono la vita i quattro sequestratori (nella foto in alto l’auto crivellata di colpi) e si concretizzano i sospetti che Giacomo Zagari già nutriva nei confronti del figlio. Nei mesi precedenti, Antonio trova nell’allora colonnello dei carabinieri Giampaolo Ganzer un tramite con la giustizia e la sua collaborazione lo porta più volte a tergiversare rispetto ai compiti che gli vengono affidati dal clan. La sua presenza a Germignaga la sera del tentato sequestro Dellea e il suo esserne uscito incolume diventa per il padre la prova della sua infamia».
La tesi analizza anche il mondo della comunicazione dell’epoca. Qual è il rapporto che ha la stampa con i sequestri?
«Nel 1974 il sequestro Riboli è una novità anche per la stampa. Già l’anno successivo, l’escalation di fatti analoghi a livello nazionale fa sì che per i quotidiani, e di conseguenza anche per i lettori, i sequestri di persona siano diventati una “normalità”. Un rapporto simile a quello a cui purtroppo assistiamo anche oggi con i femminicidi. Nel 1975 i sequestri sono all’ordine del giorno. Emergono dalle prime pagine dei giornali in occasione del rapimento, ma poi, soprattutto nel caso in cui non si risolvano rapidamente, tornano sommersi, anche per mesi».
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