CONTROPASSATO PROSSIMO
E Lisa Gherardini diventò la Gioconda

Parigi, lunedì 21 agosto 1911. Fa caldo ma è giorno di chiusura, poco impegnativo per la sorveglianza del Louvre: all’interno, gli operai della manutenzione e alcuni artisti, autorizzati a copiare le opere dei grandi maestri per esercitarsi.
Intorno alle 9 il pittore Louis Béroud e l’incisore Frederic Languillerme entrano nel salone Carré e notano che sul muro manca un dipinto, la «Monna Lisa» di Leonardo da Vinci. Avvertono il direttore: il museo viene immediatamente setacciato.
Niente: la Gioconda è scomparsa.
Il giorno dopo, l’incredibile notizia del furto domina le pagine di tutti i giornali d’Europa.
Il ritratto di Lisa Gherardini non è il dipinto più famoso del mondo, ma è assai noto e molti ne erano rimasti “rapiti”: Napoleone se lo era appeso in camera da letto; per Théofile Gautier era “una donna misteriosa, la cui bellezza turba i miei sensi”.
Sulle sue tracce si muovono freneticamente le polizie del continente: interrogatori, perquisizioni, una ricompensa di 25 mila franchi. Tutto inutile. Alcuni, i soliti complottisti, accusano la Germania, in crisi diplomatica con la Francia. Il 10 settembre una svolta sensazionale: viene arrestato il grande poeta Guillame Apollinaire che, interrogato, coinvolge un altro artista, Pablo Picasso.
I due in effetti sono in possesso di manufatti sottratti al Louvre da Honoré Pieret, l’amante tradito di Apollinaire. Una trama degna di un romanzo noir.
Davanti al giudice i giovani scapestrati perdono la loro baldanza: Picasso si mette a piangere e finge anche di non conoscere Apollinaire. Ma sono estranei al furto, e vengono rilasciati.
La caccia all’uomo non porta ad alcun risultato: la Gioconda è svanita nel nulla, forse per sempre.
Circa due anni dopo Alfredo Geri, un collezionista d’arte di Firenze, pubblica un annuncio sui giornali. Chiede opere ai privati per organizzare una mostra.
Tra le varie risposte, una lettera sbalorditiva: un certo “Monsieur Leonard V.” gli propone l’acquisto della Gioconda. Due sole condizioni: il capolavoro deve rimanere in Italia, e 500 mila lire di compenso.
Forse è un mitomane, ma l’11 dicembre 1913 Geri e il direttore degli Uffizi, Giovanni Poggi, lo incontrano in un albergo. E si trovano in mano la Monna Lisa.
Il giorno dopo “Leonard V.” viene arrestato nella sua stanza d’albergo. Il processo si tiene sei mesi dopo, il 4 e il 5 giugno 1914: unico imputato e reo confesso Vincenzo Peruggia, un decoratore e imbianchino di trent’anni, nato a Dumenza. Era emigrato a Parigi nel 1907 e aveva lavorato al Louvre.
Soprattutto, aveva saputo che Napoleone era “un ladro” e aveva trafugato molte opere d’arte. Così – spiegò – per puro patriottismo aveva deciso di riportare in Italia la Gioconda. Al processo raccontò la sua storia, più o meno simile ad altre ricostruzioni successive: era entrato al Louvre mischiandosi agli operai verso le 7. Purtroppo non c’era lavoro così, arrabbiato, improvvisò: staccò il quadro dalla parete, prese la scaletta dei Sept Mètres, si liberò della cornice e tentò di forzare la porta.
Gli rimase la manopola in mano. Tornò indietro, uscì indisturbato, con la Monna Lisa avvolta nel giaccone, e tornò a casa.
Secondo altri invece il lavoro lo aveva trovato e, per giustificare il ritardo, si inventò poi i postumi di una sbronza. Nessuno, comunque, sospettò nulla. Peruggia costruì un doppio fondo sotto il tavolo e vi ripose il dipinto, che era sempre rimasto con lui.
La pena fu lieve: in appello prese sette mesi.
Nel frattempo era diventato l’idolo del patriottismo: fuori dal carcere gli donarono 4.500 lire, il ricavato di una colletta “a nome di tutti gli italiani”.
Alla fine, il quadro tornò in Francia. Ma prima fu messo in mostra a Firenze e a Roma e le code per vedere quello che – ora, e solo ora – era diventato il dipinto più famoso del mondo, erano interminabili.
L’onore dell’Italia era salvo. A nessuno importava che la Monna Lisa non fosse stata rubata da Napoleone, ma – molto probabilmente – portata in Francia dallo stesso Leonardo e acquistata dal re Francesco I. Un po’ di ironia non può mancare, nelle piccole, ma grandi, storie.
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