CONTROPASSATO PROSSIMO
“Bobo” e la coscienza d’America

La giuria di Sumner, Mississippi, composta da 12 uomini bianchi - nove agricoltori, due carpentieri e un assicuratore - deliberò in soli 67 minuti, dopo quattro giorni di processo.
Il 23 settembre 1955 J.W. Milam e Roy Bryant, assolti, tornavano liberi. Erano stati accusati del rapimento e dell’omicidio di Emmett “Bobo” Till, un quattordicenne afroamericano. Il giovane era arrivato in autobus da Chicago nel paesino di Money un mese prima, il 21 agosto, per passare una vacanza con il prozio Moses Wright e il resto della famiglia.
Il 24 agosto Emmett e i suoi amici erano andati alla Drogheria Bryant’s, per rinfrescarsi dopo una giornata passata a raccogliere cotone sotto il sole cocente del Mississippi.
“Bobo” comprò un bubble-gum, e fu servito da Carolyn, la proprietaria, una donna bianca di 21 anni. Qui, però, accadde qualcosa. Forse Emmett “fischiò” alla ragazza: un gesto di ammirazione certo fastidioso, ma sicuramente non violento. O, magari, le disse «Bye Baby». Del resto, “Bobo” amava scherzare, dimostrava più dei suoi 14 anni e sosteneva - facendo un po’ il bullo - di avere una ragazza bianca, a Chicago.
Nondimeno, nel Sud certe cose non si potevano fare. I suoi compagni, osservata la scena dalla vetrina, entrarono e lo trascinarono via, mentre - pare - Carolyn corse in auto a prendere la pistola. Ma tutto si risolse così.
Due giorni dopo Roy Bryant, il marito di Carolyn, tornò da un viaggio in Texas e venne a sapere della vicenda, anche perché ormai ne parlava tutta Money.
Un affronto inaudito per i bianchi dell’epoca. Così, la notte del 28 agosto, insieme al fratellastro J.W. Milam, si presentò alla porta dello zio Moses. Davanti a tutta la famiglia i due rapirono il ragazzo, lo portarono in una stalla e lo pestarono, prima di spostarsi sul fiume Tallahatchie.
A quel punto Milam gli disse: «Ti senti ancora migliore di noi?». Emmett rispose «Sì», e li insultò. In un attimo Milam estrasse una pistola e sparò. Poi gli legarono un ventaglio di ferro al collo con il filo spinato e lo gettarono nel fiume. Il 31 agosto il cadavere riemerse, sfigurato: un proiettile in testa, la fronte fracassata, un occhio fuori dalla sua orbita.
Il 19 settembre iniziò il processo. Moses testimoniò: in aula si alzò e indicò gli assassini. Impensabile, fino a quel momento, in Mississippi. Eppure John Withman, il difensore, durante l’arringa non prese nemmeno in considerazione la colpevolezza: «I vostri padri bianchi si rivolteranno nella tomba se li condannerete. Voi anglosassoni dovete avere il coraggio di rimetterli in libertà!», argomentò.
Così, dopo 67 minuti, la giuria li assolse. Verdetto facile: un giurato disse a un reporter che ci avrebbero messo anche meno, ma si erano presi una pausa per bere una bibita. Gli assassini uscirono dal tribunale, abbracciarono le mogli e si accesero un sigaro, tronfi e raggianti. Quell’omicidio non era reato.
Non bastò, perché i due ci guadagnarono anche: di lì a qualche mese, per 4.000 dollari, raccontarono tutto nei dettagli alla rivista «Look». Erano già stati assolti, quindi non più processabili.
Un caso come altri, nel Sud segregazionista. O forse no: la madre di Emmett portò il corpo a Chicago e al funerale lasciò la bara aperta: «Perché tutti vedano cosa hanno fatto a mio figlio», disse. Decine di migliaia di persone sfilarono per tre giorni davanti al corpo martoriato e le fotografie, pubblicate dalla rivista «Jet», fecero il giro del mondo.
La storia scosse le coscienze, illustri e non: Bob Dylan scrisse la canzone «La morte di Emmett Till», Cassius Clay - il futuro Muhammed Alì - diceva di avere in mente “Bobo” quando combatteva.
Soprattutto, solo tre mesi dopo, il 5 dicembre, Rosa Park - una sarta sconosciuta - si rifiutò di cedere il suo posto riservato ai bianchi su un autobus di Montgomery, in Alabama. Anche lei aveva pensato a Emmett.
Da quel momento avrebbe preso vigore la lunga marcia del movimento per l’affermazione dei diritti civili guidata da Martin Luther King. Una storia non ancora finita, come racconta la cronaca di oggi.
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