DA GUSTARE
No waste: il piatto è senza pregiudizi
La visione del mondo della cucina dello chef Franco Aliberti: il cibo è un valore e non si getta nulla

Avere un piccolo orto in balcone, coltivare piante da frutto e giocare con la terra. Per poi raccogliere i prodotti, non scartare niente e apprezzare anche quelli brutti, scoprendo che sono buonissimi. E poi c’è l’essenzialità della cultura contadina: si ricicla tutto e non si butta via niente. Condensata in piccoli gesti antichi, c’è tutta la visione del mondo nella cucina manifesto dello chef Franco Aliberti che, quando il figlio Filippo aveva pochi mesi, ora ha tre anni e mezzo, ha scelto di dare una svolta alla sua carriera: fare il papà.
Vivono a Milano in una casa dove ci sono sette alberi da frutto, spazi per erbe aromatiche e un orto dove sta coltrando broccoli e bietole. Qui gioca con Filippo che può mettere le mani nella terra “giocando” a coltivare le verdure. Così, lo chef ha ridisegnato il suo mestiere in modo che possa tornare in cucina ma secondo i suoi tempi. E, in questo periodo è impegnato nel progetto di Babaco Market a Mercato Centrale Milano. Aliberti che ha lavorato a Parigi nel ristorante di Alain Ducasse e, tra le esperienze successive più importanti, c’è quella da Massimo Spigaroli all’Antica Corte Pallavicina a Polesine Parmense prima e quella presso Massimiliano Alajmo a Le Calandre di Padova.
Nato pasticcere e divenuto chef incarna la cucina con cui sta crescendo la Gen Alpha: il cibo è un valore e non si getta nulla. Anche per chi è “nato tra le stelle”. «Per me la cucina gourmet è quella di casa, quella delle tradizioni, sostenibile e stagionale. Quella senza pregiudizi». Pregiudizi e cucina? «Si perché spesso quando i prodotti non sono perfetti, si scartano. Anche nella cucina non ci devono essere pregiudizi legati all’aspetto. Non è certo la cucina del sottovuoto che dà un prodotto standard e con un gusto molto preciso, a volte per persone che hanno un palato strutturato».
Il tema dei pregiudizi che sta a cuore allo chef trova fondamento anche nella sua vita quotidiana, quella che racconta spesso, essenziale e legata al figlio, alle esperienze dei viaggi con il suo van, spesso all’estero.
«Spesso mi trovo nei parchi con Filippo e mi è sufficiente osservare i bambini così piccoli che messi a giocare, vicini l’uno di fianco all’altro trovano il modo di comunicare anche se non parlano la stessa lingua. E si capiscono. Qui la grande lezione di vita da portare anche in cucina, non ci sono barriere e c’è una grande apertura». Nasce pasticcere e diventa chef, perché? «Bisogna essere di esempio, devi insegnare al tuo team. La mia mentalità è quella del metodo scientifico da pasticcere ma deve essere duttile e adattabile al buon senso. Ma ho un cuore dolce e ho bisogno di lavorare in un clima dove si tenda a migliorare ma con etica e sostenibilità». Tradotto, cosa vuole dire? «Prendersi tempo. Se uno vuole cucinare deve ritagliarsi il tempo. In tutti i lavori ci vuole tempo, dobbiamo provare a entrare nel ruolo».
Si pensa che la cucina vegana sia quella antispreco per eccellenza. «Premetto, non sono vegano, ma dobbiamo riconoscere che grazie ai vegani avremo qualche anno in più di vita. Adoro l’approccio di scelta consapevole e questo tipo di cucina subisce i pregiudizi, paga lo scotto che all’inizio sia stato fatto un business senza cuore senza dare sapori e senza rispettare gli ingredienti».
© Riproduzione Riservata