TASSIDERMIA
Nuova vita agli animali

Lo scorso febbraio, la casa d’aste Cambi apriva a Milano una delle sue sessioni più mirabolanti ed esotiche. Centosette lotti che comprendevano crani di dinosauro, pietre iridescenti, denti di cetacei, fossili animali e vegetali, carapaci di testuggini. Tra queste curiosità da collezione non potevano certo mancare le numerose tassidermie a soggetto zoologico: pesci istrice e balestra, lucertole, pinguini, scimmie, rane, pitoni. Un’eccentrica arca di Noè, per alcuni inquietante e per altri incantata, dal sapore quasi magico. Composta da animali che tornano metaforicamente in vita per raccontare il proprio mondo naturale. La tassidermia, un tempo definita con un termine, imbalsamazione, che oggi fa stortare il naso agli addetti ai lavori, deriva il suo nome dalle parole greche táxis e dérma e può essere tradotta come «lavorazione della pelle» o «del pellame».
E benché faccia ben altro effetto pensare a un uso domestico, come per gli acquirenti di Cambi, i luoghi prediletti del tassidermista sono soprattutto i musei di storia naturale, dove le sue opere sono esposte per scopi scientifici. Le pose assunte dagli animali rimandano infatti a quelle che assumevano nel proprio habitat, riprodotto fedelmente dalle scenografie dei diorami. Lo spettatore è messo così nelle condizioni di ricevere un’immagine realistica dell’interazione tra fauna e flora.
Anche il sinonimo di impagliatura è fuorviante: non si tratta di animali impagliati, o meglio non più, ma di pellicce e piumaggi reali adagiati su manichini creati appositamente in poliuretano. Dello scheletro si mantiene solo il teschio. Sono dunque necessarie nozioni di anatomia, oltre che una grande sensibilità artigianale e una attenta capacità di osservazione che denota il profondo amore per queste specie.
Del resto, la tassidermia si fonda sul rispetto per la natura. Nasce per esigenze pratiche, anzi igieniche: preservare il cadavere dell’animale, evitando le sgradevoli conseguenze della decomposizione. Ma si è arricchita presto di una funzione esoterica: quella di riportare alla vita. D’altronde, si pensa che i primi a sviluppare le tecniche di imbalsamazione siano stati gli antichi Egizi, che le hanno in seguito applicate ai riti mortuari dei faraoni. Guarda caso i ritrovamenti funerari degli egittologi non contano solo sarcofaghi e mummie, ma anche gatti e cani impagliati, i quali dovevano proteggere il defunto durante il difficile viaggio verso l’aldilà. Certi culti prevedevano persino la mummificazione dell’animale effige del dio, come nel caso del toro Api.
Nel corso dei secoli le modalità di lavorazione, e in particolare quella della concia, fondamentale per la conservazione delle pelli, si sono sempre più raffinate. I tassidermisti sono divenuti così anche esperti di chimica. Se fino a Novecento inoltrato avevano a che fare con sostanze nocive come l’arsenico, adesso possono utilizzare prodotti come la pomata boracica, che previene eventuali rischi di intossicazione. Le altre sostanze adoperate nei processi di concia sono l’acido salicitico, l’allume di potassio o il borato di sodio. Eppure questa antichissima arte si lega ancora a un pregiudizio, forse perché associata a quei trofei di caccia orgogliosamente esibiti nelle case di qualche decennio fa.
Accusata di barbarie, la tassidermia segue in realtà un suo preciso codice etico. Prima che possa essere trasportato in laboratorio, l’animale resta a disposizione della Prefettura per circa un mese, e se sono riscontrati segni di morte violenta il corpo è sequestrato. Nessun museo espone quindi animali maltrattati dall’uomo. Piuttosto, sono i tassidermisti a essere oramai una categoria in via d’estinzione. Sempre di meno, ma tutti ancora innamorati del mondo animale.
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