ANIMALI
Siamo certi di essere la specie “modello”?

È sempre più condiviso il concetto di leader individuato come figura dominante, in grado di definire obiettivi e farli perseguire al gruppo, comunicandoli in modo efficace, motivando i singoli membri del team.
Con tale accezione non dovremmo quindi trovarci di fronte ad un emanatore di ordini perentori, in seguito ai quali si pone in passiva attesa di risultati, bensì ad una figura coinvolgente, che sa lasciare i debiti spazi di indipendenza ed operatività, in un clima ben orchestrato di fiducia reciproca. Una moderna, efficiente e propositiva leadership è quindi una sapiente antitesi della coercizione a favore dell’affiliazione. Nella nostra specie esistono oltre un centinaio di società al mondo nelle quali il ruolo preminente di indirizzo e orientamento è rivestito da donne. I Minankabau, nelle aree interne dell’isola di Sumatra in Indonesia. La società Mosuo, nelle province dello Yunnan e del Sichuan, in Cina. Le donne Juchitàn nello stato di Oaxaca, in Messico. Società che pare si contraddistinguano per le loro organizzazioni pacifiche ed egualitarie, basate sulla partnership e non sul dominio. Queste comunità costituiscono una particolare ed inconsueta forma sociale per l’uomo. Ma è davvero una rarità, o esistono esempi diversi nel mondo animale?
Due specie molto simili all’uomo da un punto di vista genetico, sebbene diversissime da un punto di vista morfologico, ci consentono alcune riflessioni. Lo scimpanzé (Pan troglodytes) e il bonobo (Pan paniscus), iniziarono una loro indipendente storia evolutiva circa 1,7 milioni di anni fa. Homo sapiens condivide con loro oltre il 98% del DNA e tra loro ne condividono più del 99%. Le differenze comportamentali più sorprendenti tre le due specie riguardano le interazioni tra gruppi. Gli scimpanzé manifestano atteggiamenti aggressivi nei confronti di conspecifici sconosciuti, mentre i bonobo mostrano una notevole tolleranza. Una ipotesi proposta recentemente è che l’evoluzione dei bonobo possa essere paragonata a un processo di “addomesticamento”. Questo processo di selezione ha fatto sì che siano prevalse caratteristiche interessanti e peculiari, come ad esempio un ridotto livello di aggressività tra gli individui, frequenti attività di gioco e ricorrenti interazioni sessuali svincolate dalle finalità riproduttive. Nello specifico caso dei bonobo, la riduzione dell’aggressività sarebbe stata indotta dalle coalizioni femminili, grazie all’abbondanza di risorse alimentari, che avrebbe permesso la formazione di gruppi femminili stabili e coesi. Il risultato è che nel corso dell’evoluzione si sono affermati gruppi che non sono basati su gerarchie maschili e sull’uso della violenza. Le femmine di bonobo non sono infatti oggetto di violenza da parte dei maschi, come succede nella società degli scimpanzé, ma al contrario sono leader e si dimostrano grandi mediatrici. Ma questi nostri “cugini” non sono l’unica specie matriarcale. Anche tra le tre specie di elefanti (una asiatica e due africane) viene data una rilevante importanza all’esperienza di ogni membro del gruppo più che alla sua forza. Ed è proprio alla femmina più anziana che si affida la leadership. Anche nei mari e negli oceani possiamo riconoscere una guida al femminile. Le orche, infatti, hanno una struttura sociale che prevede una dominanza delle femmine sui gruppi di individui, spesso composti da soggetti imparentati di diverse generazioni. Come pure tra i suricati dell’Africa meridionale, dove i branchi, composti anche da una trentina di individui, sono guidati da una femmina che si assume l’onere della protezione degli individui del branco e di cercare cibo sufficiente per tutti. Preso atto di queste casistiche e proponendo, forse, una chiave di lettura insolita o quantomeno atipica: siamo proprio certi che una ridotta presenza femminile nelle posizioni decisionali nella nostra società non sia una forma di inspiegabile involuzione adattativa?
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