DOPO LA RACCOLTA FIRME
La “cacciata” della Israel? Figlia dello stesso germe di violenza
Il team israeliano non parteciperà al Trittico Lombardo dopo le pressioni ProPal. C’è chi vuole imporre agli altri la propria visione del mondo

Signori, giù di sella! Non bastano treni bloccati, autostrade invase, aeroporti a rischio e, chissà, perfino ciclabili chiuse. Adesso si smette anche di pedalare. La bicicletta, umile strumento di fatica e di lavoro in cui passeggero e motore sono la stessa cosa, fa paura. Non in nome di un colpo di Stato (che non c’è) o della maggioranza (che non ha votato), ma di appena mille firme (così candidamente affermano gli organizzatori ProPal del blocco del pedale) raccolte per indurre la Israel Premier Tech a ritirarsi la prossima settimana dalla Tre Valli Varesine e dalla Coppa Bernocchi. Decisione che lo stesso team, tra le formazioni di punta del ciclismo internazionale, ha preso senza indugiare, mostrando grande senso di responsabilità verso l’incolumità dei propri atleti e degli appassionati delle due ruote dopo le vergognose scene di violenza accadute alla recente Vuelta di Spagna stravolta per l’annullamento di diverse tappe.
Si dirà che di fronte a uno sciopero generale (indetto contro il divieto del Garante) che ha cercato di bloccare il Paese, alle devastazioni di Milano, Torino, Napoli, alle violenze contro i poliziotti finiti in ospedale, al clima da insurrezione popolare che serpeggia nelle piazze al grido “blocchiamo tutto”, impedire a una ventina di ciclisti di prendere parte a una gara è cosa da niente. Non è vero. Palesa invece lo stesso germe di violenza, la stessa incapacità di dialogo, il medesimo clima di odio e intimidazione che non sa esprimersi in diverso modo se non nell’imporre ad altri – in nome, sia chiaro, della libertà, della democrazia, della nonviolenza – la propria visione del mondo. Esattamente come fanno Hamas e il governo israeliano, che nel vicino di casa vedono sempre e solo un nemico.
Cosa c’entri una gara in bicicletta con la sofferenza abnorme e ingiustificata dei palestinesi prigionieri a casa propria nella Striscia di Gaza (e degli israeliani prigionieri di Hamas: qualcuno se ne ricorda?) è un mistero impossibile da spiegare se non con motivazioni di stretta politica interna che con quanto succede laggiù c’entrano come i cavoli a merenda. A meno di credere che impedire a un ciclista (non a un operaio di una industria d’armi) di lavorare possa contribuire a far cessare la guerra (e se scopriamo che nelle due gare amatoriali varesine di oggi e domani sono iscritti degli israeliani che si fa, si fanno scendere dal sellino anche loro?). La Società Ciclistica Alfredo Binda e l’US Legnanese preferiscono il surplace limitandosi a esprimere «il più assoluto rispetto» per la scelta della Israel (non una parola in più) e forse nella diplomazia del settore ci può stare. Ma che tutto il mondo del ciclismo ne accetti supinamente le conseguenze, no. Un bel segnale, che non significherebbe affatto schierarsi a fianco di Netanyahu, potrebbe arrivare dalle altre squadre ciclistiche se decidessero di ritirarsi anch’esse dalle gare in segno di solidarietà con i colleghi costretti a piedi. Sentimento diffuso tra chi, per guadagnarsi la pagnotta, usa i “garuni”, per dirla alla Binda da Cittiglio e non comode barche a vela. Speranza vana?
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