LA STORIA
La scomunica dei comunisti

Il 1° luglio 1949 - ovvero settant’anni fa - la Suprema Sacra Congregazione del Santo Uffizio emanò un decreto esplosivo: papa Pio XII aveva scomunicato i comunisti.
Anzi, di più: per essere dichiarati apostati bastava solo leggere libri, giornali o volantini comunisti. E chiunque, anche un cattolico fedele, professasse la dottrina «materialista e anticristiana» veniva privato dei sacramenti: niente comunione, matrimonio e persino funerale in Chiesa.
Certo: tempo di Guerra Fredda, e bisognava prendere posizione.
Nei paesi dell’Est in mano a Stalin le persecuzioni contro la Chiesa allarmavano: l’arcivescovo di Zagabria Alois Stepinać aveva subito una condanna a 16 anni di lavori forzati, il vescovo ruteno Josif Slipyi era finito in Siberia e lo stesso Pio XII temeva per la sua persona, per fare solo qualche esempio.
Così, da anni il papa - che peraltro non aveva mai scomunicato il nazismo - tuonava contro il comunismo: «per Cristo o contro Cristo! Per la sua Chiesa o contro la sua Chiesa!», aveva ammonito a Natale del 1946.
Le elezioni del 1948, stravinte dalla Dc di De Gasperi, avevano posizionato l’Italia sotto «l’ombrello» degli Stati Uniti: la religione aveva contribuito, se uno degli slogan era stato «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!».
Ma il clima era comunque infuocato: in marzo, dopo tumulti nelle piazze e oltre 57 ore di dibattito furibondo in Parlamento, era stata sancita l’entrata nella Nato. E, ora, la scomunica.
Nel Paese che si stava ricostruendo dopo la guerra, le «ideologie» plasmavano la vita quotidiana di molti.
Il provvedimento appariva, così, potenzialmente devastante: socialisti e comunisti erano un terzo della popolazione, quindi si sarebbero potute spezzare famiglie, distruggere amicizie, lacerare intere comunità. Insomma, senza esagerare, il decreto poteva mettere a rischio l’unità nazionale.
In effetti non pochi furono gli episodi di intolleranza: alcuni parroci sospesero le feste patronali per protesta contro i voti presi dalle «sinistre» alle elezioni; altri vietarono ai militanti di entrare con le bandiere rosse in Chiesa ai funerali, scatenando polemiche.
Ma il Paese di De Gasperi e di Togliatti era anche quello di don Camillo e Peppone.
E come si poteva prevedere non mancarono quindi episodi tragicomici: proprio in quel 1949, a Caorle, due fidanzati comunisti volevano sposarsi.
Il Parroco chiuse un occhio e accettò: ma avrebbe officiato in sacrestia, non in chiesa. Intervenne a quel punto il sindaco - comunista - e li convinse a sposarsi in Comune.
Dopo la cerimonia, i due andarono comunque a offrire i fiori al Santuario della Madonna dell’Angelo. Ma il parroco ormai si era irrigidito: ritirò i fiori «blasfemi» e ordinò addirittura di sotterrarli.
Alcuni anni dopo, nel 1956, un’altra vicenda occupò le pagine di tutti i giornali.
Il vescovo di Prato, monsignor Pietro Fiordelli, scrisse una lettera per esprimere il suo dolore: aveva saputo che due ragazzi, Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, si erano sposati con «il cosiddetto matrimonio civile».
Si trattava dunque di uno «scandaloso concubinato» e i due dovevano essere considerati «pubblici concubini, pubblici peccatori».
La lettera fu letta in tutte le chiese della città.
Bellandi - che era comunista - reagì, e denunciò il vescovo per diffamazione.
Fiordelli fu condannato e la reazione della Chiesa non si fece attendere: a Bologna la cattedrale fu parata a lutto e le campane suonarono «a morto».
L’elenco potrebbe essere molto più lungo, nondimeno in realtà la scomunica non incise nella vita quotidiana del Paese e non produsse «conversioni» improvvise.
Nel 1958 poi, con il nuovo papa Giovanni XXIII, il clima si stemperò e fu lentamente dimenticata.
Politicamente, inoltre, il dialogo tra laici e cattolici proseguì fino agli Anni Sessanta, quando il Partito socialista di Pietro Nenni entrò al governo con la Dc di Aldo Moro.
Nel frattempo, però, in appello Fiordelli era stato assolto per «insindacabilità dell’atto», e i Bellandi dovettero pure pagare le spese processuali.
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