L’INTERVISTA
Il ritorno di Alex e Aidi: diciassettenni trent’anni dopo
Enrico Brizzi si racconta. Jack Frusciante è ancora fuori dal gruppo

«La certezza di avere una persona invecchiata male è quando la senti dire “ah i ragazzi di oggi…”: è la solita storia che sentivo dire a vent’anni, mi sembrava penosa a vent’anni e mi sembra penosa anche a cinquanta, nel senso che già Catone il Censore diceva che i giovani dei suoi tempi non valevano una cicca rispetto a quando era ragazzo lui. Evidentemente non può essere così se no l’umanità si sarebbe estinta prima delle invasioni barbariche. Semplicemente, molte persone crescendo, invecchiando, tendono al pessimismo. Per quanto mi riguarda, io ho quattro figlie tra i 12 e i 21 anni e trovo che i ragazzi siano meravigliosi. Chiaro che ci sono i geni e i figli di mignotta, come in tutti i tempi e in tutte le generazioni, ma generalizzare è secondo me un esercizio molto sbagliato. Cambia la superficie, ma l’anima vera resta uguale».
Sa parlare di adolescenti e con gli adolescenti, Enrico Brizzi. Con loro e non solo. E lo dimostra nel suo nuovo libro, Due (HarperCollins), il seguito di quel grandissimo successo che è stato e continua essere Jack Frusciante è uscito dal gruppo, a trent’anni dall’apparizione della storia di Alex e Aidi. E che riparte proprio dalla conclusione di quel romanzo, riportandoci a quei protagonisti nel seguito di quel 1992. Alex, Aidi, il loro mondo, le loro emozioni, i loro pensieri esattamente dove li avevamo lasciati.
«La parola “flusso”, “fluent”, è l’unica con cui sarei capace di descrivere quello che mi è successo – spiega la nascita di questo romanzo Enrico Brizzi -, anche se, se devo essere del tutto onesto, è un po’ difficile dare una spiegazione razionale a qualcosa che ti viene da fare con urgenza e tu stesso resti turbato dal perché ti venga da farlo con urgenza. Ma è quello che mi è successo a novembre, quando ho letto per la prima volta “Jack Frusciante”. Certo, l’avevo letto tante volte per brani, in pubblico, ma mai dalla prima all’ultima pagina come leggi un libro scritto da qualcun altro. E per me è stato molto bello ma anche terrorizzante arrivare all’ultima pagina, chiuderla e mettermi a scrivere proprio in un flusso, senza soluzione di continuità, il minuto successivo, senza neanche prendere il caffè in mezzo».
Dire perché gli sia successa una cosa del genere, Brizzi non lo sa, ma «quello che posso dire razionalmente è che per ventinove anni non mi è mai passato per la testa di scrivere il seguito e all’improvviso, nell’autunno scorso, questo si è trasformato nella mia ragione di saltare giù dal letto alle sei e mezza. A me questa cosa faceva paura al punto che ne ho parlato solo con le donne che ho più vicine, Sara, la donna che amo, e Cloe, la mia figlia più grande. Mi vergognavo un po’ anche a dirlo ai miei agenti e all’editore. Poi la scrittura è andata avanti, è stato fatale parlargliene e vedere la stupefazione sui loro volti».
Con una condizione operativa tassativa: la storia si ambienta negli Anni Novanta e anche l’editing doveva essere fatto come si faceva negli Anni Novanta. Niente zoom, niente via telefono: appena finita la scrittura, nella primavera scorsa, Brizzi con Carlo Carabba «numero uno della narrativa in HarperCollins» si sono chiusi in mezzo alle montagne in provincia di Pistoia e si sono messi a lavorare «come si faceva trent’anni fa».
Ed eccolo qui: il ritorno di Alex e Aidi, trent’anni dopo, ancora diciassettenni. «Non mi è mai venuta in mente l’ipotesi di ambientare la storia con loro cinquantenni anziché diciottenni – sottolinea Brizzi -: leggere “Jack Frusciante” mi ha dato l’idea che Alex e Aidi siano adolescenti per natura, non potrebbero essere nient’altro per quello che mi riguarda. Così come la pasta della narrazione è basata su quel tipo di voce di narratore che mescola citazioni colte e incolte, rock’n’roll, cinematografiche in una valanga unica di parole molto basata sul ritmo».
Con una domanda che è portante nella storia: il chiedersi se si può crescere restando fedeli a se stesso. E viene naturale chiederlo a Enrico Brizzi. «Credo che sia la domanda più importante da porsi quando si inizia ad avere i capelli bianchi, non perché uno deve fingere di avere vent’anni per sempre, sarebbe grottesco, ma a vent’anni hai un senso della giustizia clamorosamente sviluppato. Chiaro che sei ancora inesperto, non sai a che prove sarai sottoposto, ma non tradirlo ed essere leali verso se stessi e gli altri credo sia la prima domanda che uno dovrebbe farsi ogni volta che fa delle scelte nella vita».
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