L’INTERVISTA
La bellezza? Vive se la si sente importante

A cosa serve la storia dell’arte? Qual è il compito dello storico dell’arte? Perché si conservano i manufatti e le opere? Cosa muove le comunità e i popoli quando preservano o distruggono i simboli e le testimonianze ricevuti dal passato? A queste domande Luca Nannipieri, critico e storico dell’arte, offre risposte e riflessioni raccolte nel libro A cosa serve la storia dell’arte (Skira Paperback, 19 euro).
Un libro denso e stimolante, che aiuta ciascuno a capire che «non siamo mai stranieri o turisti transitori quando guardiamo e scopriamo l’incredibile, disseminato e spesso maltenuto patrimonio storico-artistico che abbiamo attorno a noi. Da cittadini, ancora prima da persone, ne siamo i possessori, i tenutari, i custodi. […] Guardare, conoscere, scoprire il patrimonio artistico delle nostre terre […] è guardare e scoprire ciò di cui siamo fatti, le nostre ossa, il nostro sangue». Lo abbiamo incontrato.
Luca Nannipieri, a cosa serve la storia dell’arte?
«Il Colosseo, se lo senti solo come una cosa del passato, lo puoi anche buttare giù: è più utile un parcheggio. Diviene invece importante quando sei consapevole che è importante per te, per il tuo essere uomo, cittadino, perché la tua storia dipende dalla sua. La storia dell’arte serve a questo: a mettere in dubbio l’ovvio. Noi cresciamo e viviamo attorno a piazze, chiese, affreschi, fontane, palazzi, oratori, teatri e sembra ovvio che ci siano: in realtà, la storia dell’arte insegna a non farli sentire ovvi, a sentirsi legati intimamente a loro, e in qualche modo sentirci attivi, responsabili della loro vita, come della nostra».
Studiare e agire, conoscenza e azione vanno di pari passo?
«Io sono uno storico dell’arte, ma quando sono stato assessore nel mio comune di cinquantamila abitanti, vicino Pisa, ho fondato il primo museo permanente di quel territorio: quasi cinquanta statue stavano marcendo tra gli escrementi dei topi in un magazzino. Le ho recuperate, fatte restaurare e musealizzare. Ho creato così una Gipsoteca civica che è entrata, in breve tempo, nella toponomastica di quel territorio. Quelle statue, prima, stavano tra i topi, ora sono visitate dai bambini delle scuole».
Lei sottolinea il ruolo fondamentale delle comunità per la conservazione e tutela di beni. Ci sono esempi sul territorio di Varese?
«Il patrimonio non è un insieme di opere, ma un insieme di attenzioni. Mi ha dato dolore che nel Campo dei Fiori, vicino Varese, ci siano straordinarie architetture prime novecentesche, di un liberty massiccio, come i monti che le ospitano, come il Grand Hotel Campo dei Fiori e il Ristorante Belvedere, che nonostante siano state segnalate dai Luoghi del Cuore del FAI, hanno ottenuto pochissima attenzione, pochissimo seguito e sono in profondo degrado. Quella è la memoria di Varese, al pari del Sacro Monte o di Villa Ponti. Forza, sono le persone, le libere insorgenze dei territori, la libera aggregazione in comunità e reti sociali, che, attraverso desideri, volontà, competizioni, cooperazioni, memorie, lotte, determinano i valori emergenti e i valori cadenti dentro il patrimonio stesso e, ben oltre il potere dello Stato, lo fanno mutare col mutare dei tempi».
Come equilibrare il ruolo della comunità con quello degli storici?
«Gabriel Marcel scriveva che dire ti amo significa dire tu non morirai. Ovvero tu sei salvo dalla morte soltanto quando uno prova amore e attenzione per te. La bellezza vive quando la si sente viva e importante per la nostra vita, quando la si consuma visitandola, lavorandoci, progettandoci attorno idee, ricerche, impieghi, stipendi, interessi. Profitto e volontariato si fanno guerra solo quando si obbliga le persone a lavorare gratis».
Quali sono i principali nemici del nostro patrimonio artistico?
«Il patrimonio non ha nemici. Se la Pietà di Michelangelo viene distrutta, alla Pietà di Michelangelo non frega nulla. I nostri nipoti non conosceranno mai una delle principali testimonianze dell’uomo sulla terra. Quindi il maggior nemico dei nostri nipoti siamo noi stessi e la nostra disattenzione verso ciò che di duraturo hanno fatto i popoli».
Perché oggi l’arte e la cultura sono così poco e male considerate?
«Zero politiche strutturali sulla cultura, zero strategie di lungo termine, elitarismo accademico asfissiante, pavidità assoluta dei professionisti della cultura che non gridano neppure se uccidono la loro madre, portano (o ne sono la conseguenza) alla sostanziale indifferenza di larga parte dei cittadini verso programmi d’arte, al netto del valore di essi stessi. Tutto è collegato. Tutto si tiene».
Quali sono gli effetti della situazione attuale sul comparto dell’arte e della cultura?
«La pandemia ha accelerato il processo di profonda crisi in cui versa la cultura e l’arte in Italia. Un esempio? Per parlare del virus in tv, si chiamano i virologi. Per parlare di Leonardo da Vinci in tv, non si chiama uno storico dell’arte che sa divulgare: spesso si chiama il giornalista che ne sa mezza, l’attore delle fiction che recita un copione. Insomma manca sempre l’esperienza diretta, la passione, le viscere, l’autorevolezza sul campo che invece senti quando ascolti parlare un virologo o un epidemiologo. Perché a parlare del Covid in TV non chiamiamo Francesco Totti o Lino Banfi? Nella cultura questo accade: non a caso Lino Banfi fu fatto ambasciatore dell’Unesco, mentre molti archeologi, archivisti, bibliotecari, curatori, critici, storici sono lasciati, da marzo scorso, in casa senza stipendio».
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