IL FILM
La leggenda dei Blues Brothers
In Italia arrivò nei cinema il 13 novembre 1980. Pellicola dallo spirito ribelle che irrideva una società razzista e piena di pregiudizi
Dopo aver ottenuto dalla Casa di produzione Universal 2000 dollari in contanti e un’auto usata della polizia della California, Dan Aykroyd partì, non si sa per dove. Tre mesi dopo, il 22 marzo 1979, ricomparve a Los Angeles e consegnò al regista John Landis 324 pagine rilegate con la copertina delle Pagine Gialle e firmate da un certo “Scriptaton”.
Quel tomo era la sceneggiatura del film “The Blues Brothers”: secondo Dan “era venuta fuori da sola”, per Landis invece conteneva “cose incredibili”, ma “era completamente folle e irrealizzabile”.
Dan Aykroyd e John Belushi erano due giovani attori comici – 27 e 30 anni – amicissimi e già famosi: dal 1975 lavoravano al Saturday Night Live, lo show più popolare d’America. Appassionati di blues, il 22 aprile 1978 si erano presentati allo show come Jake “Joliet” ed Elwood Blues: abito e cravatta neri, camicia bianca, cappello e occhiali da sole Ray-Ban Wayfarer. Quella sera eseguirono “Hey Bartender”: erano nati i Blues Brothers
Un successo immediato, così avevano messo insieme una band di grandi musicisti. Dopo concerti in tutta l’America, nel 1978 il loro primo disco Briefcase Full of Blues aveva vinto due dischi di platino e raggiunto la vetta della classifica Billboard.
Il film fu la tappa successiva: Aykroyd lo propose a Sean Daniels, un dirigente della Universal. Poi, appunto, partì.
Il risultato fu una trama a dir poco bizzarra: due fratelli bianchi – Jake e Elwood – devono trovare 5000 dollari per evitare la chiusura dell’orfanotrofio di Chicago in cui sono cresciuti a suon Rythm & Blues.
Così, dopo aver “visto la luce” in una Chiesa, partono “in missione per conto di Dio”: riuniscono la vecchia band e con il ricavato dei concerti pagano le tasse e salvano l’orfanotrofio. Non solo la trama, ma anche la sceneggiatura era contorta: bisognava riscriverla, e Landis la risistemò in tre settimane.
Il 1° luglio 1979 iniziarono le riprese. Il cast, allegro e indolente, era però ingestibile, e soprattutto Belushi che – come tutti, del resto – abusava di droga e alcol.
Per fare un solo esempio, una sera scomparve dal set e i colleghi andarono a cercarlo per le case della zona. Aykroyd bussò a una porta e “un signore disse che John era lì”: si era presentato, era andato in cucina a farsi un panino e un bicchiere di latte ed era crollato sul divano.
Alla fine, dopo infiniti ritardi e aver sfondato il budget da 12 a 27,5 milioni di dollari, ne uscì “un film folle”, ha ricordato Landis.
Aveva ragione: del resto quella pellicola detiene il record di macchine distrutte – ben 103 – ma allo stesso tempo è accompagnato dalla colonna sonora “più bella della storia del cinema”, ha certificato la Bbc.
Facile – peraltro – se recitano Ray Charles, Cab Calloway, James Brown e John Lee Hooker. E se la regina del soul, Aretha Franklin, canta in grembiule e ciabatte.
Nondimeno, non si capiva nemmeno bene cosa fosse: un musical, una commedia o un film d’azione. Forse i tre i generi insieme, ma di certo un film “destrutturato, corale, non lineare e non autoritario”, come ha sostenuto Thom Mount, ex presidente della Universal.
All’inizio non fu capito: il «Los Angeles Times» lo definì “un disastro da 30 milioni di dollari”, e il «New York Times» lo stroncò come “una saga presuntuosa”.
Così, in America uscì il 20 giugno 1980 in sole in 600 sale. Poche, rispetto alle solite 1400. E in effetti, chiuse al decimo posto degli incassi, con “solo” 58 milioni di dollari.
In Italia arrivò nei cinema il 13 novembre 1980. Quasi in sordina, ma si trasformò subito in un “cult”, e non solo per aver fatto conoscere la forza trascinante del blues.
Dietro il suo successo sbalorditivo vi era infatti qualcosa di più profondo, che tutti compresero: lo spirito ribelle, irriverente e anticonformista che irrideva e sbeffeggiava una società razzista e dominata dai pregiudizi.
Ma del resto, come diceva Belushi, “i miei personaggi dicono che va bene essere incasinati. La gente non deve necessariamente essere perfetta”, ma più semplicemente “everybody needs somebody to love”.
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