La lunga notte quando il fascismo si suicidò

24 luglio 1943. Roma, Palazzo Venezia, ore 17 e 15.
Nella Sala del Pappagallo, intorno al tavolone a forma di «U», siedono i 28 membri del Gran Consiglio, l’organo supremo del Fascismo.
Con Mussolini in mezzo, sono gli uomini che hanno fatto il regime: Giuseppe Bottai, Emilio De Bono, Guido Buffarini Guidi, Roberto Farinacci. E, come da convocazione, sono tutti in divisa fascista: sahariana nera e pantaloni corti grigioverdi.
Il clima non è mai stato così teso. Dino Grandi ha due bombe a mano in tasca, e ne passa una a Cesare De Vecchi. Alcuni hanno paura di essere arrestati, ma si deve decidere il futuro dell’Italia.
«La parola d’ordine è una sola: Vincere! E Vinceremo!», aveva urlato il Duce da quello stesso palazzo tre anni prima, tra i boati della folla.
Invece, la «guerra parallela» si era rivelata un disastro su tutti i fronti: dalla Grecia all’Africa, alla Russia. Più i bombardamenti, la fame, la paura, i morti.
Dal 9 luglio gli Alleati hanno addirittura invaso il territorio nazionale. La Sicilia è persa, e Roma è stata bombardata. A Feltre, pochi giorni prima, Mussolini ha chiesto a Hitler uomini e armi. Niente: il Fürher ha altri problemi.
Mussolini è ormai l’uomo più odiato d’Italia e non si può più aspettare. Anche Vittorio Emanuele III, che pure lo appoggia da vent’anni, lo ha capito: o separa le sue responsabilità da quelle del fascismo, o la monarchia finisce travolta dalla disfatta.
Sembra vi siano trame ordite dai militari in concerto col Re per defenestrare il Duce, ma intanto si muovono i gerarchi. Quella sera, a Palazzo Venezia, si deve votare un ordine del giorno scritto da Dino Grandi: Mussolini deve rimettere i suoi poteri nelle mani del Re. In pratica è un voto di sfiducia.
Di quella angosciante seduta non esiste un verbale ufficiale, e le testimonianze dei protagonisti talvolta non coincidono del tutto. Comunque, la discussione è rovente. Mussolini si difende, scarica le sconfitte sui militari e pone le alternative: guerra o pace con disonore. Per lui si deve andare avanti.
Replicano in tanti. A mezzanotte, dopo sette ore interminabili, una pausa per riposarsi.
Alle 2 si vota, con appello nominale: per l’«odg Grandi» 19 sì, 7 no, un astenuto. Alle 2 e 40 i presenti lasciano la sala.
Il Regime fascista è morto. Ma probabilmente nessuno lo ha ben compreso. Nemmeno Mussolini, che torna a casa da Rachele e non reagisce.
Cosa è successo? Forse i gerarchi volevano solo «commissariare» il Duce, ridimensionarlo, e magari qualcuno - Grandi, Bottai - puntava a sostituirlo. Mussolini invece, secondo alcuni storici, sperava ancora di convincere Hitler a firmare un armistizio con Stalin, trasferire la potenza dell’Asse sul fronte occidentale e salvarsi. Ma come interpretare quel voto? Una spericolata impresa per salvare l’Italia o una congiura di traditori? E il Duce? Avrebbe potuto rinviare la seduta, o farli arrestare tutti. Ma non fece nulla. Di certo, sapeva di aver perso il suo carisma, il contatto col popolo e la fiducia dei collaboratori. Forse allora voleva solo uscire di scena con un “semplice” voto di sfiducia. Una sorta di eutanasia, peraltro poco dignitosa e coraggiosa. Insomma, quella notte nessuno immagina cosa accadrà.
Così, il giorno dopo, Mussolini si reca a Villa Savoia, ma Vittorio Emanuele III immediatamente ne esige le dimissioni, lo fa arrestare e portare via su un’ambulanza.
Sono le 17 e 20: dopo vent’anni, in ventiquattro ore esatte il Regime si è suicidato. Nel frattempo, gli italiani sono all’oscuro di tutto. Solo alle 22 e 45 la radio interrompe le trasmissioni: «Attenzione! Sua maestà ha accettato le dimissioni […] presentate da sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini. E ha nominato capo del governo […] il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio».
I fascisti tacciono, e la gente scende in piazza a festeggiare. Ma non è finita, anzi. L’Italia, invasa a sud dagli Alleati e a nord dai tedeschi, diventa un campo di battaglia. E in mezzo la guerra civile, tra il residuo del fascismo di Salò e la Resistenza. Quel 25 luglio sembrava impossibile, ma il peggio doveva ancora arrivare.
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