CENT’ANNI FA
Quando l’America rimase all’asciutto

La sera del 15 gennaio 1920 migliaia di americani si riversarono nei negozi di liquori per un ultimo, triste, rifornimento: dovevano accaparrarsi tutte le bottiglie possibili, perché dal giorno dopo il Paese sarebbe rimasto “a secco”.
Iniziava il Proibizionismo, una nuova era: fabbricazione, vendita, importazione e trasporto di bevande alcoliche diventavano illegali. Anzi, peggio: un crimine federale. La battaglia contro l’alcol andava avanti da decenni, in realtà. I predicatori puritani la teorizzavano sin dal 19° secolo, supportati da società come la «American Anti-Saloon League», l’«Unione delle donne cristiane per la Temperanza» e anche dal famigerato «Ku Klux Klan».
Così, il Paese si era diviso tra i Wets (i “Bagnati”) e i Drys(gli “Asciutti”). Per i primi – liberali, intellettuali, immigrati delle grandi città – vietare l’alcol era solo moralismo bigotto.
Per gli “Asciutti” – in genere americani di lontane origini e protestanti – bere invece rappresentava il male assoluto: “i liquori sono responsabili del 25% della miseria, del 25% delle malattie mentali e del 50% dei crimini commessi!”, urlavano.
Il Proibizionismo serviva allora per proteggere la Nazione dalle influenze straniere. Un “Nobile Esperimento” per tutelare i valori dell’America contadina e rurale contro la decadenza delle metropoli invase dalla popolazione immigrata: del resto, l’ubriachezza era considerata un vizio tipico dei neri, dei proletari e anche dei cattolici.
Alla fine la tradizione aveva sconfitto la modernità e, appunto, il Proibizionismo era stato sancito dal 18° emendamento della Costituzione: ogni liquido con oltre lo 0,5% di alcol era bandito.
Ma questa crociata, la “moralizzazione” coatta di tutta la Nazione, fallì miseramente. La stessa sera del 15 gennaio 1920, a Chicago, un treno fu rapinato da una banda. Il bottino: non dollari o diamanti, ma un carico di whisky.
La malavita, infatti, aveva già capito tutto: il commercio di alcolici avrebbe fruttato milioni.
Del resto, quando iniziò il contrabbando – raccontò Joe Bonanno, uno dei più noti mafiosi americani – «mi sembrava troppo bello per essere vero, i profitti erano enormi»: produrre un barile di birra costava meno di 5 dollari e si rivendeva a 36, e il whisky rendeva molto di più. Il tutto, naturalmente, “esentasse” e poco rischioso: gli spacciatori e i contrabbandieri venivano considerati come fornitori di servizi. E la corruzione della polizia e dei giudici faceva il resto. Così, in breve, nelle campagne spuntarono ovunque i Moonshine, le distillerie clandestine nascoste tra i boschi, e nelle città gli appartamenti, i capannoni, i bagni dei negozi si rifornirono di “alambicchi” e “fornelli speciali” per l’alcol.
Gli americani avevano sete e riempivano gli Speak-easy, bar clandestini nascosti nei retrobottega o nelle cantine, in cui si entrava con una parola d’ordine. Alla fine del 1920 a New York erano almeno 32 mila, contro i 15 mila bar “legali” di prima della proibizione. Certo, quel clima stimolò anche i “Roaring Twenties”: anni “ruggenti” di ricchezza, divertimento, Jazz e movimenti intellettuali. Ma, soprattutto, mentre lo Stato perdeva milioni di dollari di tasse – circa il 14% delle entrate totali – la malavita conquistava le città: naturale, con tre miliardi di giro di affari. In pratica, l’alcol era più redditizio della prostituzione, della droga e delle bische messe insieme.
Alla fine, con la criminalità fuori controllo e con la crisi economica del 1929, che mise gli Stati Uniti in ginocchio, ci pensò Franklin Delano Roosevelt: alle elezioni del 1932 uno dei suoi slogan fu «What America needs now is a drink» («Quello di cui ha bisogno l’America oggi è un drink»). Vinse con il 57% dei voti.
Il 5 dicembre 1933 il proibizionismo fu abolito e si chiuse un’epoca.
Nondimeno, i gangster come Al Capone e Lucky Luciano, con i loro eleganti abiti gessati, i fiori all’occhiello, i cappelli Fedora e, naturalmente, i mitra spianati per ottenere il controllo del territorio, entrarono di diritto nella storia.
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