SCELTA DEI PIATTI
Per favore, restituiteci il menù di carta
I QR code sono ormai entrati nelle nostre vite, ma a tavola grazie, no!

«Giovedì gnocchi, sabato… trippa!». La voce è inconfondibile, la cadenza pure. È Vittorio Gassman che da un leggio conclude con un crescendo rossiniano niente meno che la lettura di un menù. Chi non conosce questo straordinario pezzo di televisione italiana, lo recuperi su YouTube perché, pur nello spazio di un appena un minuto, uno dei maestri della recitazione è capace di sfoderare un vero capolavoro. Si può tranquillamente dire che in fondo è un breve sketch, uno scherzo che strappa un sorriso e niente più.
Ma in quel leggendario monologo, ispirato a un detto della tradizione romana, è possibile trovare un efficace ritratto dell’italianità più profonda: l’enfasi con la quale il Mattatore interpreta un elenco di piatti più o meno tipici dello Stivale è in realtà un meraviglioso omaggio alla sacralità che ha per l’italiano comune il pasto, magari consumato in una trattoria in un vicolo nascosto di un borgo storico del Belpaese. E il menù è la sua bibbia, quella parte cruciale del rito che è anche una sorta di tagliola senza appello per il ristoratore.
Alzi la mano chi, all’estero, appena seduto al ristorante, non fa il giochino di andare come prima cosa a guardare se c’è scritto “pasta bolonesi” o “pepperoni pizza” e altre amenità del genere. Perché guai a chi, straniero, non rispetta il piatto italiano e peggio ancora se errori di questo tipo si trovano sui tavoli della nostra Italia, sempre pronta a parlar male dei propri problemi, ma orgogliosissima quando si tratta di difendere la propria tradizione. Cade in questo stereotipo anche chi scrive e vale pure per il menù ovviamente, nonostante, lo ammettiamo, sia qualcosa che ci ha sempre creato un po’ di panico: l’eccessivo numero di piatti ci manda in crisi, specie per quanto riguarda la pizza, tanto che, in preda a una incontrollabile sindrome da labirinto, finiamo per ordinare sempre la solita “bianca con salsiccia e porcini”.
Ma l’altra sera siamo entrati in un ristorante tipico e, apprezzato quel confortevole sottofondo di chiacchiere e tintinnio di posate e bicchieri, improvvisamente… il dramma. Seduti al tavolo di legno d’ordinaza, cerchiamo il menù. Nulla. Chiediamo al giovane cameriere e lui ci guarda stupefatto, quasi orripilato. Balbetta, sconvolto dal boomer che ha di fronte. Non riesce a parlare, solo lo vediamo accennare con gli occhi verso un punto alle nostre spalle. Seguiamo il suo sguardo e finalmente capiamo. Eccolo lì, il famigerato QR code, quell’incomprensibile disegnino che va inquadrato col cellulare per far apparire magicamente il menù sul nostro telefono.
Evitiamo di descrivere le difficoltà personali nello scegliere il piatto, ma vi assicuriamo che la sensazione è stata straniante. L’idea del menù col QR code si è diffusa in Italia durante la pandemia per evitare di passarsi germi attraverso quel famigerato pezzo di carta ma ci domandiamo se non sia il caso di tornare indietro. Ordinare attraverso un’app è di per sé spersonalizzante per lo stesso locale, un tragico passo verso la trasformazione della ristorazione in un gelido fast fooding nel quale presto la carbonara te la consegnerà un robot. Ma poi ve lo immaginate di andare da Cencio La Parolaccia a Trastevere, ordinare bucatini all’amatriciana e vedersi insultare dal telefono?
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