L’ESPOSIZIONE
Tarek Atoui ci fa vedere con le orecchie
Concepita come «un omaggio alle improvvisazioni». Al Pirelli HangarBicocca di Milano la prima personale in Italia

Vedere con le orecchie. Potrebbe essere questo il modo per visitare la prima mostra personale dell’artista libanese Tarek Atoui (Beirut, 1980) Improvisation in 10 days, ordinata da Lucia Aspesi per HangarBicocca. Una mostra ricercata, visivamente modesta, che penetra, tuttavia, nel corpo che ne perlustra lo spazio, scavalcando un serpeggiar di cavi e tubi che si dispongono sul pavimento, aggirando -ma anche toccando- i blocchi di marmo qua e là disposti, evitando tamburi e strumenti dalle diverse fogge, bacinelle e acquasantiere, soffermando lo sguardo su grandi, e sospesi, dischi di pergamena.
«I lavori sono in realtà strumenti, non opere. L’arte è nella composizione»: è in questa frase dell’artista la chiave di volta per entrare nella mostra.
Accolto, dunque, il suggerimento, l’anestesia visiva iniziale si muta in una varietà di sensazioni uditive, impreziosite da stimoli visivi, tattili, che trasformano l’originaria impressione di concettualità in un’esperienza fisica e propriamente corporea. Ci si muove in uno spazio in cui bisogna prestare attenzione non solo a ciò che si vede, ma anche a ciò che si ascolta. In questa riproposizione artistica di un paesaggio acustico, si viene circondati da suoni e rumori: gocciolii, fruscii, passaggi d’aria, melodici fischi. Una composizione di effetti acustici, non una musica propriamente detta, ma un concerto, etimologicamente inteso: un insieme di suoni che si contendono uno spazio.
Tre corpus di opere organizzano la mostra coprendo gli ultimi dieci anni di ricerca artistica di Atoui.
Souffle continu, composto da dispositivi che producono suoni e vibrazioni attraverso un soffio d’aria; The Rain che esplora il suono attraverso gli elementi in cui si propaga; Waters’ Witness, un progetto complesso volto ad indagare le realtà storico-culturali e socio-economiche di città profondamente legate alla presenza di un porto (i blocchi di marmo sono stati recuperati nei pressi del porto ateniese, così salvando suggestioni classiche e mediterranee).
Una mostra che mostra le qualità fisiche e visive del suono evidenziando i rapidi moti di oggetti che vibrano su una membrana o facendo rivivere al visitatore -come in Wind House 1, una cabina abitabile- il tipico fastidio di quelle rapide compressioni e decompressioni d’aria, che colpiscono le orecchie, prodotte, dalla combinazione tra disposizione dei finestrini e velocità dell’automobile. Più delicato, quasi lirico, il mutarsi del sorridente “plin” di una goccia che cadendo da una cannula si dissolve nella bacinella sottostante in un baritonale “plon” esploso da un disco sospeso.
Qui l’arte si ricollega alla vita, un’arte fenomenologica, che isola, esplicitandole, situazioni quotidiane mostrandone il lato estetico, sicché come la Natura ci insegna a guardare l’arte, così quest’ultima ci insegna a vedere la prima. Un’arte, cioè, che ci permette di percepire coscientemente ciò che il flusso della vita ci limita a sentire. E sarà proprio da questa percezione istruita che, volenterosi e pazienti, potremo procedere a considerazioni ed interpretazioni che espandono la nostra consapevolezza oltre -ben oltre- il piano fenomenico.
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